Orbene, incignamo il bloggo con una delle presenze architettoniche milanesi maggiormente significative: la Torre Velasca, come da titolo, un’apparizione.
Di giorno si coglie in
pieno questo suo aspetto quasi sovrannaturale; di sera assai meno in effetti,
il che potrebbe essere pure un po’ paradossale, ma è vero che l’attuale illuminazione
in notturna è veramente scarsina, e – giga errore – non ne mette in risalto il
profilo, che è poi la cifra della sua unicità.
Ma di giorno no. Di giorno
si vede benissimo.
Di giorno la Torre Velasca
è un grumo di cemento rosato che esce, lievita dai tetti di via Larga. Sorprendente
e immobile si staglia nel cielo di Milano. Ed è milanesissima.
Saggio di brutalismo
targato Gruppo BBPR, fu ultimata nel 1957, otto giorni prima della prevista
fine dei lavori. Milanesissima, dicevamo, anche in questa puntualità quasi
pedante.
Bella ma non vistosa,
nonostante l’aumento di planimetria ai piani superiori, che la devia dalle
forme consuete del grattacielo, e che indusse il Daily Telegraph a insignirle,
nel 2012, il primo posto nella classifica degli edifici più brutti al mondo. Buondio,
questi inglesi non capiscono un cazzo. La Torre Velasca è semplicemente
bellissima.
Per via delle sue travi
oblique, quasi una trasposizione concreta dei disegni più arditi del buon
Eugène Viollet-le-Duc, i milanesi la soprannominarono ‘grattacielo con le
bretelle’ o, più maliziosamente, ‘con le giarrettiere’. Nel complesso non
possiede per nulla un aspetto tozzo, e se è vero che non è slanciata è però misteriosamente
equilibrata nelle sue forme, solido gigante di béton brut.
Le parole migliori per descriverla
sono quelle di uno dei suoi creatori, Ernesto Nathan Rogers:
“La torre si propone di
riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi
edifici, l’atmosfera della città di Milano, l’ineffabile eppure percepibile
caratteristica”.
Imparate a memoria questa
frase e fatevi fichi con gli amici, pronunziandola a surprise (ma anche con un
certo grado di disinvoltura, mi raccomando) mentre ci passate sotto: cos’è in
effetti la Torre Velasca, sgraziata ma in realtà bellissima, se non un condensato
culturale della città di Milano?
Ecco, per me la Torre Velasca è esattamente un’apparizione. Bella e strana da sembrare inventata, uscita dall’inchiostro d’un fumetto vintage di supereroi, più dei grattacieli a sezione sottile che gareggiano in altezza, impegnati a primeggiare, ma senza troppa personalità.
Per me la Torre Velasca è
l’apparizione vista correndo, nel mio irregolare andirivieni per quelle zone,
perennemente in ritardo e con le guance tagliate in due dal freddo milanese; ma
forzatamente ferma al semaforo pedonale di piazza Velasca – che non è per
soffrire di manie di persecuzione ma giuro che non m’è capitato una volta che
fosse una di beccarlo verde in vita mia. Ma queste son quelle piccole beffe del
destino burlone che si rivelano al contrario prodighe assai. Difatti: tutto il
tempo di guardarmela, la Torre Velasca, e di scoprirla epifanicamente nella sua
potenza; e di perdermi nelle sue scanalature rosate, nella sequenza ritmica
delle sue finestrone, nella sua immobile solidità. E ci si perde talmente tanto
da far diventare il semaforo che dapprincipio era rosso verde, e poi rosso di
nuovo, o forse sono io che son cogliona. Oppure è la Torre Velasca che è
bellissima, o con molta probabilità in effetti tutte e due le cose.
Vederla in una domenica mattina grigia e plumbea è
aspirare, quasi farsi un aerosol di milanesità, cacciandosela fin dentro ai
polmoni (a vostro rischio insomma). E per fruirla al meglio non posso che
suggerire una sosta nel bar di fronte, quello ad angolo, bianco e lucido,
interamente vetrato. Il caffè è buono, le sedie e i tavolini in giusta quantità,
e se si solleva la testa la Torre Velasca riappare ancora, così vicina da non
vederla allungarsi nel cielo. Invece lo sai che spicca dai tetti circostanti,
con l’aria di chi la sa lunga ma non lo dà a vedere. Intoccata nella sua
potenza, figa e modernissima, distillato puro dell’anima imprendibile di questa
città.
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