Non importa da dove siate arrivati, se da via Mazzini, se dal dedalo di stradine che si dipanano di fronte a piazza sant’Alessandro o se vi siate appena lasciati alle spalle la Torre Velasca, scendendo da quella via molto larga che si chiama via Larga: il fatto è che ora siete in piazza Missori, e la cosa è esattamente là in mezzo.
Sei siete di Milano molto
probabilmente anche voi, come me, nel peregrinare frenetico tipico di questa comunità così operosa, opulenta e
vanitosa (cit.), ci sarete passati davanti un miliardo di volte, notandola
sì, ma sempre troppo di corsa per vederla davvero; rimanendo così sospesi, per
un rapido nanosecondo, in un grano di curiosità e chiedendovi anche voi, come
me: oh, ma chissà che minchia è quella
roba là! Un lampo, solo un fugace baluginio mentale, e poi il ritorno ai
vostri pensieri e alle vostre faccende. Sicché è facile che poi, immersi nei
ritmi convulsi di cui sopra, vi siate scordati di approfondire, trovandovi
ancora a non conoscere una bega di questa cosa,
che stà là, nel mezzo di piazza Missori, con la sua forma accattivante, con la
sua offerta d’altrove che spezza – discreta ma potente – il volto più omogeneo
dello slargo viario.
Quella cosa è un'abside. O
almeno quel che ne resta. I mattoni rossastri descrivono una curva, tipica del
perimetro murario del retro d’un altare. L’altare d’una chiesa romanica, San
Giovanni in Conca. Della chiesa oggi resta solo ciò che si vede: i resti della
parete absidale, con una bella monofora, apertura scenografica sulla boccioniana
Milano che sale più oltre, coi suoi palazzi, coi suoi tram arancioni e nei
giochi sovrapposti dei loro pantografi; e la teoria d’archetti svuotati, tipica
del romanico meneghino.
Ma della chiesa, invero,
resta anche ciò che non si vede. O meglio, per vederlo bisogna scendere. Dietro
ciò che resta dell’edificio di culto c’è infatti una scala in pietra, alla
quale si accede attraverso la porta d’un cancelletto in ferro. Se la porticina
è munificamente aperta, allora potrete scendere; preparandovi a uno spettacolo
assolutamente irripetibile in Milano. Percorsi i gradini,
fiancheggiati da un bel verde fiorito, ecco aprirsi allo sguardo l’ambiente di
quella che fu l’antichissima cripta della chiesa. L’unica romanica originale
che oggi si conservi a Milano.
In effetti la chiesa di San Giovanni in Conca ne ha vissute davvero di ogni. Sconsacrata dagli austriaci, fu chiusa dai francesi che la trasformarono in magazzino di ferramenta e carri. Poi arrivarono gli svedesi e… scherzavo, gli svedesi in questa storia non ci sono. Ad ogni modo susseguentemente fu deciso il riassetto urbanistico della piazza, che decretò nel 1948 la demolizione della chiesa per ragioni viarie. La facciata fu venduta ai Valdesi, che se la rimontarono, con qualche variazione, nella loro chiesa, nella vicina via Francesco Sforza, di fronte alla Guastalla; e così, a testimoniare antichi riti, rimase solo l’abside diroccata, quasi un capriccio in mezzo al paesaggio urbano via via modernizzatosi, e poi, appunto, la cripta. Una cripta senza più chiesa. Al suo interno, lungo il perimetro, sono esposti, oltre a interessanti foto che documentano le fasi finali dell’esistenza dell’edificio, antichi reperti rinvenuti in zona: statue, pavimenti, decorazioni. La scoperte migliori sono però visitabili al Castello Sforzesco e anche all’adorato Museo Archeologico di corso Magenta (ne parlerò, per me è un pezzo di cuore): su tutti il bellissimo pavimento musivo con decorazioni geometriche e la raffigurazione d’un felino, appeso alla parete sulla destra del Museo, appena entrati.
La cripta di San Giovanni
in Conca per me è un luogo commuovente: là fuori, in alto, la vita brulica, i
milanesi ci passano e ripassano sopra e accanto… e la cripta è là, sotto i loro
piedi, da secoli, fedele a sé stessa, nel suo fresco umido naturale.
Un giorno che ero sotto per
le solite cose son scesa dal tram per tornarci, e passeggiare sotto alle sue
volte basse, tra i capitelli smussati delle sue colonne di pietra, materiali di
riuso come vuole, del resto, il romanico medesimo. La cripta mi ha accolto
senza dire una parola, e si è lasciata guardare come si guardano i miracoli, e
le cose tenacemente resistite a un destino che ne avrebbe comandato la
dispersione. La chiesa non c’è più, ma per fortuna la cripta è ancora al suo
posto, suggestiva bolla d’ossigeno nelle viscere cittadine. Due chiacchiere con
la volontaria del Touring, un ultimo sguardo e poi il respiro finale:
inforcando le scale in salita, per tornare nella frenesia della città che sale.
Con un iniezione di bellezza nel cuore, che d’accordo, non avrà spazzato via
del tutto ogni tristezza ma tant’è.
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